cornici

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martedì 16 febbraio 2016

storia di un equivoco

aveva deciso di far tardi in ufficio un po’ per avvantaggiarsi, un po’ perché sapeva che se fosse passata da casa il richiamo del divano sarebbe stato più forte di qualsiasi velleità di giovinezza. quando si erano dovuti trasferire lì dicevano che sarebbe stato solo provvisoriamente ma aveva capito subito che sarebbe andata come doveva andare, che non c’è nulla di più definitivo del provvisorio…

nel breve tratto che la separava dalla sua auto faceva quasi sempre gli stessi pensieri, uno dedicato al traffico, troppo o niente in quella grande via, uno al gestore del camioncino che sfama camionisti e avventori delle prostitute, e invade di crautiesalsiccia tutto il parcheggio. 

era stata una serata tranquilla ma piacevole, aveva bevuto un prosecco e mangiato il solito piattino di couscous che propongono agli aperitivi e una porzione doppia di chiacchiere. era stata contenta di vedere le sue amiche che trascurava da un po’. la fortuna è che loro -come tutte le amiche- sono come una telenovela, anche se ne perdi qualche puntata mantieni sempre il filo.

lunedì 20 luglio 2015

trentatrè

un letto singolo addossato alla parete, una scrivania di legno chiaro su cui ai tempi del liceo aveva intagliato un qualche incitamento alla sua squadra e attaccato una figurina di Altobelli la cui pettinatura, nonostante il tempo e il prodotto per spolverare di cui sua mamma abusava, continuava a dire la propria. un armadio con tre ante e due cassetti. l’anta più a sinistra portava ancora i segni di quando Simonetta Antonelli della terzaccì si era messa con Marco De Nicola, il belloccio della sua classe.

l’unica grande innovazione in quella stanza era avvenuta ormai qualche anno prima, quando col primo stipendio da autista del trentatrè, in servizio da piazzalelagosta a rimembranzedilambrate, aveva acquistato un televisore 28 pollici che aveva attaccato alla parete tra l’armadio e la porta d’ingresso. si ricordava ancora di quanto gli fosse sembrato scortese nei confronti di sua madre non annoiarsi su chi l’ha visto in sala, come era successo ogni mercoledì della sua vita fino a quel momento. non aveva traccia di cosa avesse poi realmente visto, ma forse non aveva neppure importanza.

lunedì 13 luglio 2015

bang bang

niente è rimasto come allora, ricordo un natale di qualche anno fa, avevo regalato ad Anna un braccialetto di diamanti, lo avevo nascosto in un suo vecchio foulard sostenendo di non aver avuto tempo per andare a comprarle un regalo vero. si vedeva nel suo sguardo che era profondamente delusa ma non aveva detto una parola. stava addirittura abbozzando un sorriso di circostanza con i suoi mentre srotolava il foulard per indossarlo. era stata così contenta poi, quando l’aveva trovato! aveva riso di gusto quando l’avevamo presa in giro per quella faccia triste.

poi le cose sono precipitate, il lavoro non faceva che diminuire. poi i guai, le accuse di estorsione, i soci, gli avvocati, le banche… tutti contro di me, perfino quelli che da me avevano campato. quelli che sono amici finché le cose vanno bene. abbiamo chiuso la magenta. fallita. bancarotta mi hanno dato. io ci ho provato a uccidermi, volevo spararmi ma non ne ho avuto il coraggio. ho preso la pistola che tenevo sotto al forno e l’ho puntata alla tempia in camera da letto ma quando ho visto la mia immagine riflessa allo specchio non ce l’ho fatta. ho pensato ai ragazzi, e ad Anna. ho immaginato le loro facce alla vista di tutto quel sangue e me, riverso per terra.

lunedì 6 luglio 2015

altrove

era un groviglio di ossa avvolte alla pelle, una persona minuta il cui fisico da bambina combatteva costantemente con l’anima da gran donna. aveva trascorso i suoi primi anni in un paese di quelli che arrivano al presente con vent'anni di ritardo ed era sempre stata diversa. era chiaro a tutti quanto lo fosse ed era chiaro a lei che non aveva mai combattuto nell'illusione di uniformarsi, lo aveva fatto, invece, nella speranza di riuscire a far capire ai più che il contrario di essere normali è essere speciali.

si era faticosamente guadagnata un’esistenza scegliendo in prima persona, fin da piccolissima, le mani a cui affidarsi e i piccoli grandi aggiustamenti che avrebbe subìto per continuare a godersi i suoi giorni. aveva seminato i piccoli grani della sua indipendenza in vasetti di terracotta e li aveva annaffiati regolarmente seppur con grande sacrificio.

aveva scelto una vita altrove, dove i giorni non passano mai e le notti sono votate ai pensieri, ai singhiozzi e alla nostalgia, dove il vicino di casa ti saluta con distacco, pensando tra sé e sé dove possa aver già visto la tua faccia e lì si era fatta grande. aveva sgomitato per ritagliarsi il proprio spazio, sfidando gli altri e scommettendo contro se stessa. spesso aveva vinto, delle volte aveva perso. quelle sconfitte però le avevano regalato un’esperienza e un briciolo di saggezza.

lunedì 29 giugno 2015

appocundrìa

si trovava lì a causa di una di quelle serate, che capitano a tutti prima o poi, in cui ci si impegna per davvero ad essere diversi da quelli che si è. una di quelle serate in cui si è fatto finta di essere indipendenti, emancipate, affrancate dalla paura di ciò che gli altri pensano di noi stessi. una di quelle serate in cui si finge di non soffrire la solitudine di dentro, o la si soffre talmente tanto da sentire la necessità di colmarla con voci sconosciute, chiasso e alcool.

si era svegliata una mattina in quella fase della vita in cui si dovrebbero fare dei bilanci ma si ha paura di rilevare che qualcosa è andato storto e l’utile tanto agognato, alla fine, non c’è. era una donna di una sensibilità estrema, invadente, minacciosa. c’era un velo nei suoi occhi e una gabbia nel suo cuore. ogni sussurro del mondo le provocava brividi incontenibili. 

la sera in questione risaliva a sei settimane prima, dopo una piccola delusione, una di quelle che in periodi migliori della sua vita non avrebbe neppure considerato tale, aveva indossato un abito scollato e una buona dose di mascara ed era andata in un bar in centro. era un locale con le luci basse in cui conosci lo sguardo del barista ma non il nome. un ragazzo con la chitarra suonava perso in un blues malinconico e stonato e un uomo, di cui ricordava solo le mani, le aveva offerto qualche bicchiere di vino e un abbraccio.

lunedì 22 giugno 2015

blucobalto

da quando non c’era nessuno ad aspettarlo a casa consumava storie effimere la cui unica implicazione era quella di dover cambiare le lenzuola. si era tuffato a capofitto nel lavoro e nello sport traendone ottimi risultati. ulteriore conferma di quanto la sua condizione di uomo libero fosse l’ideale per lui. aveva ottenuto una promozione a lavoro ed era ormai chiaro che avrebbe preso il posto del suo capo che stava per andare in pensione. era anche riuscito finalmente a concludere il suo secondo romanzo e l’editore gli aveva programmato una serie di eventi per la presentazione al pubblico.

Lui si ricordava ancora bene quanto aveva sofferto, quanto quel cammino in due fosse stato uno sbaglio, quanta fiducia aveva riposto in quel sostegno che  lo aveva tradito cedendo sotto il suo carico, e quanto gli era pesato dover ammettere di aver ceduto, a sua volta. si era costruito una corazza. aveva gelato quei suoi occhi blucobalto. si era convinto che non ne valesse la pena, che avrebbe camminato da solo, senza appoggiarsi a niente, a nessuno. e alla fine in quella condizione di equilibrio, di mondo ovattato, di quiete derivata dalle emozioni di cui si privava accuratamente, ci stava bene. o forse la consapevolezza di non star male gli era sufficiente.

lunedì 15 giugno 2015

50 special

si erano conosciuti in un pomeriggio di marzo, uno di quelli in cui sembra che l’estate sia dietro l’angolo. Lui aveva preso qualche ora libera dal lavoro per aiutare un amico a traslocare e lei fingeva di studiare diritto civile godendosi quei raggi di sole sul muretto. sotto il peso di una scatola di libri, Lui aveva fatto qualche battuta a voce alta per farsi notare e aveva attaccato bottone sottolineando che la visione di lei era l’unica cosa che lo spingeva a scendere nuovamente, trascurando il richiamo del divano e delle birrette in frigo. “piacere, Martina” aveva sussurrato lei. si erano scambiati i numeri di telefono e avevano cominciato a vedersi, sempre più intensamente, fino a che non avevano deciso di stare insieme davvero.

lui lavorava nella falegnameria di suo padre. era un lavoro che faceva con passione perché era sempre stato incantato dal legno, inoltre lo rendeva felice il sapere che dalle sue mani poteva nascere qualcosa di concreto. lei studiava giurisprudenza per ingannare il tempo. la facoltà l’aveva scelta col criterio infallibile della minor distanza da casa. non era particolarmente brillante ma aveva imparato il metodo e riusciva, seppur non a eccellere, a progredire agevolmente con gli studi.